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il museo della musica
Venezia

Collezione Artemio versari

La Grande Liuteria Italiana (seconda parte) Intervista ad Artemio Versari
Di aspetto giovanile, cordiale e affabile come sanno essere i romagnoli, Artemio Versari ha quei modi semplice e piacevoli che ti mettono subito in una buona condizione di spirito, quasi come un buon bicchiere di Sangiovese. È un buon parlatore, si abbandona ad un ampio gesticolare quando la passione prorompe dai suoi discorsi. La musica e la buona tavola gli allargano il sorriso e gli occhi brillano. Allora le parole cominciano a fluire senza sosta e il racconto diventa rievocazione di violini, luoghi e persone. È uno dei collezionisti di strumenti ad arco più noti nel mondo musicale italiano ed europeo. Ha già pubblicato un libro dove è illustrato il nucleo emiliano-romagnolo della sua vasta collezione (Liuteria Moderna in Emilia-Romagna) e i cataloghi di due mostre (Tre secoli di liuteria italiana e La famiglia Guarneri e le copie del Novecento Italiano) allestite con i suoi preziosi esemplari. In effetti la sua principale occupazione ora è quella di organizzare e realizzare mostre. A Venezia ne ha allestita una permanente nella Chiesa di San Maurizio (Venezia – Il Museo della musica – Strumenti Italiani nei Secoli). Ma lo scopo che anima questa pubblsicazione è diverso, più ampio, è quasi il desiderio di lasciare una traccia. “Con questo secondo libro che dedico alla mia collezione voglio lasciare una testimonianza del frutto di quarant’anni di ricerche faticose e instancabili per le quali mi sono spinto a girare tutta l’Italia, a frequentare un numero enorme di musicisti, privati e commercianti dai quali ho acquistato i miei strumenti. Per tale motivo ho voluto ora ampliare la panoramica per includere le principali regioni liutarie del Novecento italiano. È un omaggio che voglio fare alla nostra liuteria, alla sua cultura e, in fondo, anche ai miei sforzi”.

A proposito di vita, dove sei nato?

"Nei pressi di Cesena vi è un piccolo paese, Pieve Sestina, lì la mia famiglia abitava quando sono nato, negli anni intorno alla seconda guerra mondiale. Era un paese agricolo, dove la gran parte dell’economia girava intorno al mondo rurale. Mio padre era un fabbro meccanico, mi piacerebbe ricordarlo, perché la gran parte dei liutai italiani del Novecento proviene da famiglie di piccoli artigiani che lavoravano il legno e il ferro. Solitamente in quegli ambienti si era indotti dalle necessità e dalle circostanze a seguire la professione paterna ed io all’inizio non feci eccezione. Mio padre mi insegnò il lavoro di meccanico, mestiere che non mi appassionava molto e non mi dava soddisfa zio e. altre figure invece affascinavano la mia immaginazione di adolescente. Ricordo ancora in particolare quegli uomini che passavano per il mio paese per andare al mercato di Cesena. Si fermavano da noi per una riparazione alla motocicletta o per una breve sosta all’osteria. Mi colpivano perché erano sempre ben vestiti, non solo alla domenica. Proprio nell’adolescenza avvenne il mio primo incontro con la musica. Avevo sedici anni quando un mio caro amico che suonava il trombone mi incoraggiò a studiare musica, ma all’inizio non ne volli sapere. Però le mie doti naturali non passavano inosservate e una zia insistette al punto da riuscire a convincere mio padre a mandarmi a Cesena per studiare contrabbasso. Lì feci pochi anni perché il maestro che seguivo mi spinse ad iscrivermi al Conservatorio G.B. Martini di Bologna, convinto che fossi particolarmente dotato. Dopo appena cinque anni mi diplomai con ottimi voti nella classe del Maestro Rossi che proveniva dalla scuola del Billè. Agli inizi degli anni Sessanta quindi mi ritrovavo sulla soglia di quel mondo ignoto che era per me l’ambiente musicale italiano. Nonostante stesse iniziando un periodo di grande sviluppo economico per la società, il momento per me fui abbastanza duro. Dopo aver assolto gli obblighi della leva militare, dovetti superare alcune crisi nel mio rapporto con la musica. Alla fine, dopo aver collaborato con qualche orchestra in modo saltuario mi risolsi ad affrontare concorsi che davano accesso alle orchestre. Vinsi alcuni di quelli che feci e fui in grado di scegliere tra il Teatro la Scala, il Carlo Felice di Genova e il Comunale di Bologna dove vinsi il posto di primo contrabbasso. Alla fine decisi di rimanere “a casa” perché, contemporaneamente insegnavo in conservatorio, dapprima a Padova per due anni e poi a Bologna per altri venti anni, nello stesso Istituto dove mi ero diplomato. Parli della musica come di una passione che si è in qualche modo scolorita. “Mi piaceva insegnare e suonare. In particolare la facilità che avevo nell’apprendere la parte mi tornava particolarmente utile. Ricordo ancora una Histoire du soldat di Stravinsky che lessi a prima vista spericolatamente ma, a detta dei colleghi, efficacemente. In un certo senso però, il mio rapporto con la musica era paragonabile a quegli amori giovanili ancora un po’ confusi, una curiosa mistura di piacere e attrazione, ma sempre volubili e instabili. Invece con gli strumenti fu amore a prima vista, quelle passioni che quando ti prendono non ti abbandonano più per tutta la vita”.

Quale è stato il tuo primo strumento?

“Lo ricordo ancora con simpatia, un contrabbasso a forma di pera. Me lo aveva procurato mio padre che lo aveva avuto da un contadino. In effetti era molto rustico e forse fu costruito proprio da uno di quei contadini che, per rendersi utile nelle serate passate in osteria o nelle feste di piazza, si fabbricavano gli strumenti in casa con gli attrezzi che avevano a disposizione. Ma al conservatorio non mi potevo presentare con uno strumento di tal fatta. Comprai allora uno strumento di fabbrica tedesca che mi accompagnò fino al diploma.  Poi, con il lavoro in orchestra e l’insegnamento fui in grado di procurarmi strumenti più ragguardevoli sia come fattura sia come suono. Ho iniziato con una Marcolongo, poi ho avuto un Marcucci dal suono molto ampio per poi finire con un Pedrazzini (acquistato dal mio maestro) che usavo per le trasferte e un Carcassi che usavo invece solo in teatro. La facilità con cui il Carcassi si lasciava suonare era straordinaria, aveva un suono che non posso che definire magico”.

Mi spieghi come sei diventato un esperto competente?

“A differenza della musica, devo confessarti che nella liuteria non ho avuto un maestro. Solo il mio occhio. Ho iniziato studiando attentamente gli strumenti, prendendoli in mano e osservandoli palmo a palmo. Così ho allenato l’occhio e formato il gusto, una qualità che segue a ruota quando cominci a rilevare le peculiarità delle scelte stilistiche dei vari autori. Certo, anche la frequentazione dei principali liutai attivi tra gli anni Sessanta e Settanta mi è tornata utile. In generale non amavano divulgare le loro conoscenze, ma discutendo di strumenti, mettendoli alla prova e chiedendo loro opinioni, a volte ne ricavavo qualcosa di utile. Uno dei più affabili con me fu Leandro Jr Bisiach, che conobbi verso la fine della sua attività. Mi diede dei consigli e da lui acquistai alcuni degli strumenti della mia collezione, fra cui proprio il contrabbasso Carcassi cui ho fatto cenno in precedenza. A Milano conobbi e frequentai anche Farotto e Malagutti, presso quest’ultimo ho avuto occasione di comprare alcuni esemplari della collezione e fare amabili conversazioni su strumenti e liutai. Ad esempio mi spiegò perché Ornati preferiva fare spessori molto alti. Ad Ornati non interessava che i suoi strumenti suonassero subito (e per subito si intendeva alcune decine di anni), ma essendo convinto che col tempo il legno si assottigliasse e cedesse, mirava unicamente al futuro. Ho iniziato parlando delle mie frequentazioni milanesi perché quella era una delle città più importanti per il commercio all’epoca, godendo ancora della grande attività sviluppata da Leandro sr Bisiach e poi continuata dal suo entourage fatto di figli, ex allievi e collaboratori. Purtroppo non ho conosciuto Ornati e a Garimberti ho fatto solo qualche sporadica visita. Ma ovviamente non frequentavo solo i liutai milanesi. I loro colleghi romagnoli ed emiliani erano più a portata di mano. Ho frequentato il laboratorio di Capicchioni, persona estremamente seria e taciturna, che non si entusiasmava nel discorrere di strumenti antichi, o almeno lasciava trasparire poco. Come facilmente si può immaginare, ho conosciuto e frequentato Poggi e Fracassi, Bignami e i Carletti (Natale e Genunzio), Rocchi e Raffaele Vaccari, Parmeggiani e Contavalli, Lucci e Lepri, Cavani e Simonazzi. La mia passione mi spingeva a battere anche altre regioni, per esempio ho conosciuto Morano in Piemonte, De March in Veneto, Casini in Toscana. Ma confesso di non essermi mai spinto più a sud di Roma dove si era trasferito Lucci. Di ognuno di loro ho dei ricordi particolari. Di Poggi ricordo bene l’altissimo valore che dava al denaro e la spiccata diffidenza verso gli estranei; era veramente difficile farsi accogliere in casa sua, se non si era ben conosciuti. Fracassi era invece un buon parlatore. Di Mario Gadda, altro grande liutaio recentemente scomparso, ricordo con ammirazione la grande esperienza e conoscenza, oltre la straordinaria capacità di imitare lo stile altrui. Potrei raccontare ancora un buon numero di aneddoti, ma non vorrei annoiare i lettori. Per tornare alla tua domanda, in buona sostanza sono diventato esperto grazie alla passione e all’entusiasmo che non ho mai perso in tutti questi anni. Ora molti musicisti e appassionati mi chiedono consigli e vogliono che dia uno sguardo ai loro strumenti, cosa che faccio sempre con molto piacere”. Hai acquistato strumenti solo da liutai? “No, ho acquistato anche da qualche musicista ma soprattutto da privati. Quando ho iniziato a mettere insieme la mia collezione erano gli anni Sessanta. All’epoca c’era ancora molto materiale sul territorio e, soprattutto, molto materiale genuino. Non c’era ancora una ricerca esasperata e selvaggia come oggi. Sono stato in grado di farmi l’occhio sullo stile degli autori senza essere indotto in confusione da strumenti dubbi o palesemente falsi, evenienza ora molto frequente purtroppo. Inoltre all’epoca era ancora possibile acquisire strumenti a prezzi ragionevoli”.


Quali criteri e priorità ti sei dato nel formare la collezione?


“Mi sono dato delle priorità, ma le ho rispettate sempre con un po’ di sano pragmatismo. I criteri sono sostanzialmente legati alla tipologia, ai tempi e ai luoghi. Il grosso della collezione è costituito dagli strumenti ad arco, anche se un piccolo gruppo è costituito da strumenti a pizzico, chitarre e soprattutto mandolini. Ho acquistato solo strumenti italiani e questo è l’unico punto da cui non ho mai derogato. La liuteria italiana è quella che conosco meglio ed è quella del mio territorio. Devo precisare che non volendo limitare l’ambito nazionale, ho però di fatto concentrato le mie scelte soprattutto sul repertorio del Centro e Nord Italia, ma pur sempre  con qualche eccezione, penso a qualche maestro romano e napoletano. Poi ho dato la priorità agli strumenti del Novecento su quelli più antichi, ma in ciò costretto da quanto poteva offrire il mio ambiente. Semplicemente mi era più facile trovare gli strumenti del Novecento che gli altri. Infine, l’ultimo criterio, la bellezza dello strumento. Lo elenco per ultimo ma è sempre stato al primo posto”.

Hai acquistato strumenti solo da liutai?

“No, ho acquistato anche da qualche musicista ma soprattutto da privati. Quando ho iniziato a mettere insieme la mia collezione erano gli anni Sessanta. All’epoca c’era ancora molto materiale sul territorio e, soprattutto, molto materiale genuino. Non c’era ancora una ricerca esasperata e selvaggia come oggi. Sono stato in grado di farmi l’occhio sullo stile degli autori senza essere indotto in confusione da strumenti dubbi o palesemente falsi, evenienza ora molto frequente purtroppo. Inoltre all’epoca era ancora possibile acquistare strumenti a prezzi ragionevoli.”

Se tu dovessi iniziare da capo, come ti muoveresti?

“Non saprei bene. Dai liutai viventi ho comprato solo raramente il lavoro della loro bottega. Ho sempre comprato strumenti usati o antichi. Per questo motivo ho frequentato poco Cremona nei primi tre decenni della mia attività di collezionista. La liuteria cremonese di oggi è una presenza massiccia, quasi ingombrante per le altre scuole regionali italiane. Cremona ha prodotto dei grandi artefici e ha dato delle solide basi a tanti giovani liutai, ma ha anche fortemente omogeneizzato e standardizzato il mercato”.

Cosa ti aspetti dal futuro?

“Di acquistare ancora degli splendidi esemplari e arricchire così una raccolta che, senza modestia, posso definire come una delle più grandi collezioni europee private di strumenti ad arco. Del futuro di questa raccolta, ancora non saprei cosa dire. Certo gli strumenti non nascono per essere chiusi nelle teche dei musei o nelle casseforti dei privati, ma per fare musica e trasformare in vibrazione le grandi intuizioni dei geni musicali del passato. Forse torneranno a percorrere le strade del mondo, così come hanno iniziato a fare quando sono usciti dal laboratorio dei loro artefici”.

Tratto da: Artemio Versari, La Grande Liuteria Italiana  84 Capolavori della Liuteria Moderna ed. Novecento Seconda Parte – Intervista ad Artemio Versari Intervista a cura di Antonio Moccia ad Artemio Versari.
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